martedì 29 marzo 2011

La mia Sarajevo

In questi giorni di guerra libica ho pensato di frequente a Sarajevo. Lo faccio ogni qualvolta c'è una guerra. Il pensiero corre immediato ai quei primi anni '90, quando a giocare all'odio fratricida c'erano i nostri dirimpettai. L'assedio di Sarajevo rappresenterà per me sempre il dolore dei civili, lo strazio della gente comune, la distruzione di una comunità.
Nel mio piccolo mondo di bambina italiana improvvisamente irruppe l'afflizione per le tragedie della Storia. Prima di allora a scuola avevo sentito parlare di guerra tra popoli, di catastrofi, di distruzioni. La maestra mi aveva raccontato la triste storia dei bambini di Chernobyl, poi c'era stato il Muro di Berlino e subito dopo la prima guerra del Golfo. Se ne parlava a scuola, si pregava anche per le sorti delle persone; tuttavia io continuavo a piangere solo se due adulti litigavano o se un cane inseguiva un gatto (ho sempre avuto paura della sopraffazione dei più grandi sui più piccoli). Il mio mondo restava intatto, lindo, solido. Poi cominciò l'assedio di Sarjevo e nulla fu più come prima. La tragedia del popolo bosniaco mi sconvolse. Forse perchè incominciavo ad aprirmi al mondo, a intuire che oltre le amate colline ci potesse essere dell'altro. Era l'intuizione di un grande amore: il mondo.
Ricordo i soldati dai caschi blu e i giornalisti che parlavano esagitati mentre sullo sfondo bruciava la sede del Parlamento o si vedevano palazzi con crepe, fori e finestre rotte. I palazzi violentati dai cecchini: la mia immagine triste di quella città. La mia immagine della guerra, da quel momento in poi. Ogni volta che la tv trasmette le riprese girate in zone di conflitto bellico io cerco l'orrore della vicenda sui vestiti dei palazzi. Perchè? Forse perchè penso che una casa violata significhi una famiglia colpita. E una famiglia colpita, defraudata della sua tranquillità domestica, è una comunità sconvolta per tanto tempo. Troppo tempo.
Mia Sarajevo, oggi penso a te, alla tua gente, al tuo passato di lacerazioni e al tuo domani di riconciliazione. A te e alle città con i palazzi bucati.






Ultimo tango a Sarjevo

La Sarajevo degli amanti non si arrende.
Sul tavolo l’invito per il matinè di danza allo Sloga.
Naturalmente ci andiamo!
I miei pantaloni sono un po’ logori,
e la tua gonna non è proprio da Via Veneto.
Ma noi non siamo a Roma,
noi siamo in guerra.
Arriva anche Jovan Divjak. Dagli stivali si vede
che viene direttamente dalla prima linea.
Quando ti chiede un ballo sembri un po’ confusa.
Per la prima volta ballerai con un generale.
Il generale non immagina l’onore che ti ha fatto,
ma, a dire il vero, anche tu al generale.
Ha ballato con la donna più celebrata di Sarajevo.
Ma questo tango questo è solo nostro!
Per la stanchezza ci gira un po’ la testa.
Mia cara, è passata anche la nostra magnifica vita.
Piangi, piangi pure, non siamo in Via Veneto,
e forse questo è il nostro ultimo ballo.
Izet Sarajlic

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